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La giornata internazionale contro la violenza sulle donne

Il 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, il Parlamento Europeo ha dedicato una seduta apposita alla presenza della Commissaria all’Uguaglianza Helena Dalli. Nonostante le norme di distanziamento previste nell’Aula, mai forse vi è stata seduta più intensa di commozione come in questo caso.

La crisi pandemica ha obiettivamente inciso nella consapevolezza di tutto il Parlamento e delle forze politiche circa il peso che le donne sono costrette a portare sulle spalle, sia in termini economici e occupazionali, sia in termini di violenza domestica e di genere. Questa maggiore consapevolezza ha sicuramente agevolato una discussione proficua da cui sono nate varie iniziative parlamentari e sociali concrete.

Il voto sulla risoluzione congiunta, di cui sono cofirmataria per il gruppo S&D, in cui si condanna il divieto all’aborto previsto dal governo polacco e si esprime solidarietà alle donne polacche, per esempio. La sostanziale coincidenza di questo voto con la discussione sullo Stato di Diritto e sui veti al bilancio pluriennale sciaguratamente annunciati dal governo polacco e dal governo ungherese, rendono ancora più attuale e pregnante quella risoluzione. Così come è stato particolarmente significativo il richiamo alla Convenzione di Istanbul.

È inaccettabile che a quasi dieci anni dalla sua stesura vi siano paesi, in seno alla Unione Europea e fuori da essa, che non l’abbiano ancora ratificata.

Quella Convenzione resta per noi il faro del diritto contro la violenza sulle donne, e la sua ratifica resta passaggio essenziale, anche se non sufficiente, dell’affermazione dei diritti delle donne nel nostro continente e nel mondo.

Per quanto riguarda il nostro Paese, ci siamo fatte promotrici di una petizione in seguito all’ennesimo episodio di criminalizzazione di una vittima di violenza sessuale, stavolta perpetrato a mezzo stampa. In questa petizione chiediamo di modificare il Decreto legislativo n.70 del 15 maggio 2017 che disciplina i requisiti di accesso per il contributo pubblico all’editoria. Vi è espresso un concetto semplice: i giornali e gli altri mezzi di comunicazione che usano un linguaggio misogino, sessista, discriminatorio e di incitamento all’odio non possono, quantomeno verrebbe da dire, accedere ai fondi pubblici per l’editoria.

Sappiamo bene che una delle principali ragioni del silenzio delle donne dopo la violenza è il contesto sociale segnato da “se l’è andata a cercare”. Quel silenzio fa male come la violenza stessa.